giovedì 15 aprile 2010

Suburbi di Roma: la Sinossi



E’ un giorno qualunque della settimana di ferragosto sono le 13 e il sole brucia. Le ombre sono assenti dalle cose. Roma è deserta ed afosa. Mi sembra di essere l’ultimo uomo rimasto sulla terra. Il motorino va, spedito, senza rallentare e senza badare agli inutili semafori accesi. Il rumore del motore disturba il silenzio, quasi mi vergogno. Via Casilina, Tor tre teste, Tor bella Monaca, ed ancora in giro per il Trullo, Tor Marancia, Magliana, Tiburtino Terzo, Tufello e Quarticciolo, quello der Gobbo. Sulla Laurentina un po prima di Via di Tor Pagnotta giro a destra per Via Ignazio Silone sotto i Ponti del Laurentino 38, il quartiere dei poeti e degli scrittori. Parcheggio il motorino, osservo la campagna intorno alla città e mi incammino per Via Carlo Emilio Gadda, ipnotizzato dal mantra delle cicale leggo Piazzale Elsa Morante, Via Carlo Levi, Piazza Eugenio Montale e vado su per Viale Filippo Tommaso Marinetti, un viale lungo e alberato che divide due schiere di case popolari perfettamente identiche tra loro alle quali si accede da piccole vie cieche, via Baudelaire, Via Gogol, Via Melville, Via Balzac e via Garcia Lorca, cognomi senza nomi quasi fossero ricordi senza memoria.

“Tera concimata” è scritto su un pezzo di cartone e nell’aria una voce “Aoh! Che stai a fa” così alta greve e sbiaccicata che anche il canto delle cicale sembra intimidirsi. E’ Armando, un signore anziano ex “puggilatore e campione del monno delle forze armate” che sta seduto su una sedia accanto ad una baracca costruita su un prato di fronte al complesso delle case popolari. Dopo un sorriso ed un breve colloquio mi dice: “viè qua mettete a sede. Bevi!” e versa in una bottiglia di plastica tagliata a metà del Tavernello bianco e caldo.

La baracca di Armando è un punto di passaggio quasi obbligato, molti si fermano per un bicchiere di vino prima di tornare a casa altri passano intere giornate a parlare di famiglia e problemi. Si beve, si mangia e si baccaia.

Ho passato settimane alla baracca fino ad incontrare Massimo detto “er pantera”. Massimo gestisce un bar che tutti chiamano “bisca”, abusivo, frequentato da ciurmaglia umana in cerca di sballo, compagnia e affetto. Si parla di carcere, di famiglie distrutte, racconti veri ed immaginari, pettegolezzi di quartiere, “damme na grappa”, “mi fijo è carcerato” “a me me l’hanno ammazzato”, “quello s’è suicidato” e “tizzio, caio e mbroio”. C’è chi barcolla e chi ha gli occhi rossi e bagnati dalla droga, chi urla, chi ride e chi gioca a stecca, ogni tanto una rissa, “Aoh! te spanzo”, e le prese per il culo… e la cocaina (“namo a pija ‘n pezzo”), ossessivamente presente… sempre, nella tasca, nella mente e nel sangue. C’è anche l’eroina, ma “quella è da sfigati”. E poi le storie di mala, il mito “der canaro” , la Banda della Magliana , “er Sicilia”, Claudio Sicilia, “er pentito quello morto ammazzato” che controllava la zona, c’è chi lo ha conosciuto e chi millanta improbabili associazioni a delinquere. Passano i mesi e prendo confidenza con il loro linguaggio che non è semplicemente un dialetto volgarizzato ma un universo logico e dissociato di cio che è bene e di cio che è male. Accolto nella loro intima solitudine ascolto gli sfoghi repressi, urlati e strozzati, unici, irripetibili, sorprendenti e tragici, a volte grotteschi, gli sfoghi e i silenzi di residui di anime schiacciate da una densa e costante claustrofobica ansia.


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